Il PNRR e la mano visibile del mercato
Luglio 2021
L’Italia ha riposto parecchie aspettative in relazione alle risorse europee che saranno messe a disposizione per la realizzazione del PNRR - acronimo ormai arcinoto che significa Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - un progetto che intende rilanciare il Belpaese durante la fase post pandemica, cioè dopo il terremoto sanitario e sociale associato al temibile coronavirus SARS-CoV-2. Intanto questa possibilità poggia sulla concreta speranza che appunto ci si possa trovare già ora nella fase di superamento dell’emergenza: i dati attualmente a disposizione confermerebbero una netta diminuzione dei contagi, lo svuotamento degli ospedali, la riduzione al minimo dei decessi, dinamiche queste ultime che sono anche correlate al progredire della campagna di immunizzazione di massa. Tuttavia nel campo medico non sempre le cose vanno come si vorrebbe, così i segnali che provengono da alcune nazioni in relazione al diffondersi di certe varianti del virus (quella “delta” ad esempio) sono fonte di preoccupazione, giacché è riscontrabile di nuovo il diffondersi dell’infezione nonostante la relativa capacità di copertura dei vaccini attualmente a disposizione. Inoltre vi è il problema di poter contenere il contagio a livello planetario in generale, poiché non è immaginabile pensare in un mondo così fortemente interconnesso, alla stabilità sanitaria di aree del pianeta diciamo “covid free” contigue però con altre dove l’infezione continua a circolare.
Comunque sia il nostro Paese confida molto nel Next Generation EU, nel Recovery fund, che è la più grande opportunità in termini di sviluppo e di ammodernamento da parecchi decenni a questa parte, ma restano ancora dei dubbi su alcune scelte di spesa e sulla realizzazione nei tempi previsti dei progetti presentati, nonché sulla governance del processo stesso. Si tratta per lo più di un prestito a lunga restituzione ma anche di sovvenzioni a fondo perduto per diversi miliardi di euro, che verranno impiegati in interventi connessi ai tre assi strategici condivisi a livello europeo: la digitalizzazione e l’innovazione, la transizione ecologica, l’inclusione sociale. Il Recovery plan italiano prevede una richiesta di 191,5 miliardi di euro, da qui al 2026, alla quale si affianca il fondo complementare per le infrastrutture da 30,6 miliardi di euro, quindi per un totale degli investimenti previsti di 222,1 miliardi di euro (a cui si aggiungono anche ulteriori 26 miliardi da destinare alla realizzazione di opere specifiche e per il reintegro delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione, e 13 miliardi del programma REACT-EU). Una montagna di denaro non c’è dubbio.
ll Piano si dipana attraverso sei missioni: Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura; Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica; Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile; Istruzione e Ricerca; Inclusione e Coesione; Salute. Per raggiungere questi obiettivi sono state proposte parecchie riforme di “contesto”, abilitanti e settoriali in ambiti particolarmente significativi, come la Pubblica Amministrazione, la Giustizia, il Fisco, le misure di semplificazione, razionalizzazione della legislazione e quelle per la promozione della concorrenza, ma anche del sistema di istruzione, degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive per il lavoro come forma di accompagnamento alla realizzazione del piano, e molto altro ancora.
È l’occasione storica per l’Italia di affrontare con coraggio le sfide che abbiamo all’orizzonte, a partire però dalla riduzione delle disuguaglianze sociali e territoriali, e di misurarci poi certo con il green deal e con la digitalizzazione, finalizzando comunque gli investimenti alla creazione di buona occupazione e alla sua tutela, soprattutto per i giovani e per le donne, e con particolare riguardo al Mezzogiorno. La Commissione Europea ha già approvato il nostro Piano di Ripresa e Resilienza, il quale dovrà muoversi lungo queste direttrici per raggiungere gli obiettivi prefissati, per ricomporre quella frattura sociale ed economica che è stata ampliata dalla pandemia, ma che era una condizione preesistente nel nostro Paese, solo così si potrà tornare a parlare di crescita e di sviluppo sostenibile e veramente condiviso. Il PNRR non dovrà pertanto risultare solamente un elenco di interventi da realizzare, dovrebbe invece diventare il “Progetto Paese” nel suo complesso; inoltre questo ambizioso piano di investimenti e di riforme potrà veramente essere realizzato se verranno coinvolte anche le parti sociali, i corpi intermedi, e con un rafforzato protagonismo dello Stato e delle articolazioni di una moderna Pubblica Amministrazione.
Il fatto di “stare in Europa” in questo contesto è da considerare certamente come un punto di forza che ha marginalizzato quelle sensibilità invece euro-scettiche che interpretano le istituzioni europee essenzialmente come dei fattori limitanti gli interessi nazionali e quindi dei singoli cittadini. Ma un evento così dirompente come la pandemia non può essere affrontato efficacemente soltanto con la forza delle singole nazioni, in questo senso le risorse messe a disposizione dalle economie dei 27 Stati membri della UE, da utilizzare per risollevare i sistemi economici travolti dall’emergenza sanitaria, rappresentano un insostituibile strumento di solidarietà che sarà sicuramente efficace per poter superare la crisi. Tuttavia l’Europa chiede all’Italia uno sforzo per “meritare” questo corposo aiuto economico, cioè che si proceda speditamente nell’attuazione delle riforme previste nel PNRR, nella sua puntuale realizzazione, rendicontazione e nella misurazione dell’efficacia delle azioni previste. Queste sono a grandi linee le garanzie richieste per l’erogazione dei fondi. Il busillis è che gli eventuali effetti - per così dire - “negativi” di questi processi non ricadano sempre sullo stesso corpo sociale, cioè sulle spalle dei lavoratori e delle persone più fragili, diventando quest’ultimi loro malgrado la vera “garanzia” a sostegno del PNRR. A questo proposito è necessario ad esempio che la riforma fiscale segua il criterio della progressività, che vi siano tutele maggiori per i lavoratori occupati, gli stessi che hanno sostenuto la produzione durante le restrizioni imposte dalla fase emergenziale, e che ora stanno subendo invece le ricadute penalizzanti di un progressivo allentamento del blocco dei licenziamenti. O che magari vedranno allontanarsi la prospettiva della collocazione in quiescenza perché potrebbe essere necessaria una riforma anche in questo ambito dopo lo stop ventilato alla cosiddetta “quota 100”, ma l’Europa ci chiede di non aumentare la spesa pensionistica. Insomma non è in discussione la necessità di certe riforme ma il fatto che le stesse abbiano il carattere dell’equità. Infatti la “mano invisibile” del mercato della metafora Smithiana appare in certi casi essere visibilissima, ma non nel senso di forza che bilancia la ricerca egoistica del proprio interesse in una economia di mercato e quello dell’intera società, portando complessivamente all’equilibrio generale; ma come percorso che arriva a questo risultato facendone però spesso pagare le conseguenze più spiacevoli sempre ai soliti noti.
Così per le ACLI è importante proprio in questa temperie essere sempre e di più “popolari” anche in questa fase di cambiamenti epocali, cioè vicine ai bisogni delle persone, di stare accanto alle loro fragilità dando risposte concrete attraverso i servizi, ma anche accompagnandole e formandole nei mutevoli passaggi che caratterizzano la transizione; stimolando i giovani, le donne ed i lavoratori a rendersi sempre più responsabili e protagonisti del loro destino.
Andrea Rinaldo, già Consigliere Provinciale ACLI Como
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